“Mentre scriviamo è in pieno svolgimento la guerra in Ucraina. …anche in questo caso ricompare il tema dell’identità. Vediamo le immagini fino a ieri inimmaginabili di «sovranisti» polacchi e ungheresi che accolgono generosamente i profughi, perché europei come loro, e a loro accomunati dalla minaccia russa. Quelle frontiere davanti alle quali fino a poco fa si accalcavano migliaia di disperati, respinti senza alcuna pietà, ora si aprono. È l’identità che fa la differenza. E lo sperimentano le migliaia di studenti asiatici e africani, iscritti alle università ucraine, che si vedono respinti alle frontiere, a quella polacca in particolare, quando cercano di tornare a casa per fuggire dalla guerra. Ma qualcosa di simile accade anche in Israele, pronta ad accogliere i profughi provenienti dall’Ucraina, purché ebrei. Gli altri vengono espulsi o obbligati a versare costosi depositi per garantire che alla fine se ne andranno.
L’identità è intesa troppo spesso come qualcosa che divide, che distingue/separa, «noi» da un lato e «loro» dall’altro. È proprio questa identità che ci permette di respingere chi riteniamo «altro» da noi, portatore di una identità diversa, dalla quale non vogliamo essere inquinati. È anche qualcosa per cui crediamo che valga la pena morire, ma anche uccidere. Che l’identità possa essere all’origine di violenze lo abbiamo visto negli ultimi decenni in tanti posti, Kosovo, Bosnia, Ruanda, Timor, Israele-Palestina, Sudan, …, e ora anche in Ucraina. Noi che seguiamo con interesse e solidarietà le vicende della Palestina lo abbiamo visto recentemente ad esempio nei tentativi di ebraicizzare Gerusalemme con l’espulsione delle famiglie palestinesi, e lo vediamo quotidianamente nella politica di apartheid perseguita sistematicamente dal governo israeliano.
Noi, gli «autoctoni» ci sentiamo nel diritto di «respingere» chi pensiamo non lo sia, o, magari invece, siamo disponibili ad «accogliere», ma comunque siamo sempre noi che ci arroghiamo il diritto di decidere se accogliere o respingere. Il concetto di «autoctonia» è strettamente legato a quello di «patria». Per i sacri confini della «patria» è bello morire, e naturalmente si può uccidere. E per difenderli si può anche respingere il migrante, fino a permettere che muoia di freddo e fame in un campo o annegato in mare. Ma per difendere i confini bisogna anche armarsi.
Più volte come Rete abbiamo condannato le politiche riguardanti le spese per gli armamenti (+2,6% nel 2020, anno della piena pandemia, arrivate a 1981 miliardi di dollari e in continua crescita. Fonte SIPRI), in un mondo in cui le guerre non si sono MAI fermate. Nel 2021 erano 30 effettive + 15 situazioni di crisi, inclusa l’Ucraina, dove una delle guerre più mortifere tra quelle cosiddette ‘a bassa intensità’ si è protratta dal 2014, mentre i Salvini e i Berlusconi di turno lodavano “il grande statista” Putin. Particolare e ‘dimenticata’ recrudescenza hanno poi avuto, recentemente, i conflitti in Etiopia e nel Sahara Occidentale.
Ci preme qui sottolineare: lo stato permanente di guerra nel mondo; il fatto che le guerre non nascono a caso, ma che ci sono sempre cause complesse che le determinano e attori diversi che le originano; il rapporto tra armi e affari, e il nesso tra sistema economico ed escalation militare; la totale deregulation delle vendite di armi; la quotazione in borsa delle aziende produttrici di armi, sia private che pubbliche (sono ben 195 le aziende italiane produttrici di armi quotate in borsa), per cui per sostenere il titolo si va a caccia di mercati e c’è una continua accelerazione degli investimenti; il fatto che il nostro paese sia, a livello mondiale, all’11° posto per le spese militari, passate nel 2021 da 64 a 70 milioni di euro al giorno, e sia presente, con le sue forze armate, in 50 teatri di guerra.
Invitando tutte e tutti a riascoltare la lezione magistrale di Gino Strada “Verso un mondo senza guerre”, alla festa ‘Scienza e Filosofia’ del 15/06/2018 (www.arcoiris.tv/scheda/it/16880/addC), intervento di un’attualità stringente, ricordiamo tra i temi su cui ci sembra importante lavorare:
la promozione di iniziative per portare le aziende di armi sotto il controllo pubblico, in modo che la loro produzione e commercializzazione dipenda dalle esigenze di sicurezza del paese piuttosto che dalle forze del mercato e della finanza.
Al riguardo, ricordiamo l’importanza della piena applicazione della Legge 185/90 sull’export di armi, attraverso un severo controllo del Parlamento, in attuazione dell’Art. 11 della Costituzione. Lo spirito della legge è quello di promuovere una politica estera basata sul rispetto delle norme internazionali, con l’obiettivo anche di promuovere la costituzione di una agenzia europea per il controllo delle esportazioni di armi. Pertanto, non può essere considerata una legge sull’“industria militare”: deve controllare, non FAVORIRE l’export di armi! La legge contiene poi anche programmi relativi alla riconversione al civile, purtroppo mai realizzati in trenta anni.”